Non esiste conservatorismo senza natura, non c'e' nazionalismo senza ambientalismo, l'ambiente naturale della nostra terra ci ha formato tanto quanto noi stessi abbiamo fatto con esso. Siamo nati dalle nostre terre e la nostra stessa cultura e' stata plasmata da esse. La protezione e la preservazione di queste terre ha la stessa importanza della protezione e preservazione dei nostri ideali e del nostro credo.Qualcuno si ricordo' cosi' del 2017, quando durante i disordini seguiti al raduno razzista dello Unite the Right Rally, a Charlottesville, in Virginia, venne assassinata Heather Heyer, manifestante di una contro-protesta anti-suprematista. Anche in quei giorni erano spuntate dichiarazioni che univano tutela ambientale ed estrema destra. "Abbiamo la possibilita' di diventare gli amministratori della natura, o i suoi distruttori" aveva scritto Richard Spencer, esponente della cosiddetta alt-right, nel manifesto ideato per l'occasione.
Con l'arrivo della pandemia si e' tornato a parlare di ecofascismo. Durante i primi lockdown totali, sui social sono diventati virali foto e video (a volte artefatti) della natura che guariva e si riprendeva il pianeta, acque dei fiumi che tornavano limpide e animali che popolavano le strade deserte mentre buona parte degli esseri umani era confinata in casa. "Noi siamo il virus", era la didascalia di queste foto, un meme diventato quasi subito parodia di se' stesso. Eppure, nonostante fosse nato con intenzioni completamente diverse, in molti hanno notato che, a volerlo prendere sul serio, non esiste slogan migliore di "Noi siamo il virus" per riassumere la violenza dell'ecofascismo e la sua misantropia. La narrazione della natura come soggetto puro che, una volta separato dall'uomo, risorge, e' una narrazione feticizzata e pericolosa, proprio perche' cancella le componenti sociali, culturali ed economiche. E, come ha scritto Grist, importante rivista statunitense di orientamento ambientalista: "la verita' piu' insidiosa (e scomoda) e' che inquietanti filosofie sull'umanita' sono sempre coesistite col pensiero ambientalista".
Ma che cosa significa quindi ecofascismo? Non e' semplice rispondere. Come con il fascismo eterno descritto da Umberto Eco, anche l'ecofascismo non sembra avere una semplice e univoca definizione, o una caratteristica esclusiva che lo possa definire. Dire cos'e' l'ecofascismo non e' una questione di dizionari, e oggi diverse fonti, anche diametralmente opposte, sembrano ancora servirsi di questa parola piuttosto liberamente. Per esempio James Delingopole, editor della testata di estrema destra Breitbart, negazionista climatico e scientifico (a inizio della pandemia ha cercato di vendere una cura, da lui "collaudata", ai suoi seguaci), nel 2013 ha scritto un intero libro per denunciare l'ambientalismo mainstream, definendolo, appunto, ecofascista.
Allo stesso tempo, nell'opposto spettro politico, alcuni ambientalisti hanno parlato di ecofascismo a proposito delle dichiarazioni della primatologa Jane Goodall, intervenuta al Forum economico mondiale del 2019. Goodall aveva detto che gran parte dei problemi ambientali erano dovuti all'aumento della popolazione mondiale e che quindi molti di questi non esisterebbero se il numero di esseri umani sul pianeta fosse quello di 500 anni fa. Per i critici affermazioni come queste rivelano un ingenuo malthusianesimo e, soprattutto, sollevano inevitabilmente domande pericolose: se siamo troppi sul pianeta, chi sarebbe in piu'? Se consideriamo la distribuzione della natalita', dovremmo concludere che sono di troppo proprio i paesi piu' poveri, di cui l'Occidente ha sempre sfruttato le risorse. Sono loro a dover essere oggi "contenuti". Non e' difficile immaginare le implicazioni di questo tipo di ragionamenti, ed e' per questo che anche le parole di Goodall sono state tacciate di ecofascismo, e quindi criticate anche e soprattutto dal mondo ambientalista. Lo stesso trattamento che e' stato riservato alla filosofa Donna Haraway, colpevole di dichiarazioni non dissimili sulla riduzione della natalita', nonostante il suo appello fosse in realta' costruito e argomentato in chiave femminista, antirazzista e anticolonialista. Tuttavia, come ha scritto la professoressa Banu Subramaniam, anche da queste prospettive, il controllo della popolazione non puo' essere separato dalla sua dimensione coercitiva e dal suo bagaglio razzista e coloniale, ancora attuale.
A queste difficolta' "tassonomiche" aggiungiamo il fatto che sono in pochi a rivendicare apertamente il termine ecofascismo per descrivere la propria ideologia, o una sua parte. "Un tentativo di definizione di ecofascismo potrebbe essere questo: l'ideologia che affronta i problemi ecologici senza tenere conto dei problemi sociali di tutte e tutti, specialmente dei piu' deboli. E le soluzioni a questi problemi, o presunte tali, sono quindi autoritarie". Parla Marco Armiero direttore dello Environmental Humanities Laboratory, KTH Royal Institute of Technology (Svezia). Come storico dell'ambiente Armiero si e' occupato anche degli aspetti "verdi" del fascismo italiano. Una linea di ricerca gia' esplorata alla fine del secolo scorso a proposito della Germania nazista.
Eccoci allora di fronte a un ecofascismo che potremmo definire "storico". Ma possiamo trovare un filo rosso che lega l'ecologismo attuale, o parti di esso, a quello studiato nei due regimi? Ci dovremmo chiedere, come fanno alcuni, se non sia l'ecologismo stesso un prodotto tossico di quel passato? In realta', mi spiega Armiero, non e' cosi' semplice. Per usare un noto paradosso, il fatto che Hitler fosse o non fosse vegetariano e per quali motivi, non ci e' di nessuna utilita' per capire il vegetarianesimo attuale e le sue motivazioni.
Camicie nere, retoriche verdi
I regimi autoritari - racconta Armiero - mobilizzano tutto quello che e' intorno a loro, quindi anche le spinte che definiremmo ecologiste. Possiamo a buon diritto parlare di ecofascismo "storico", ma sarebbe un gravissimo errore credere che nazisti e fascisti avessero una coscienza ecologica cosi' spiccata. La tesi delle radici naziste dell'ecologismo attuale e' stata avanzata dalla storica Anna Bramwell alla fine dello scorso secolo. Ma da allora questa interpretazione e' stata molto criticata, e per molte ragioni. Per esempio, la Germania aveva gia' una certa tradizione di protezione del paesaggio, che precedeva anche di secoli l'ascesa del nazionalsocialismo. Che ha, e' vero, varato delle leggi apparentemente avanzate in merito, ma lo ha fatto nella misura in cui alimentava il mito propagandistico del sangue e del suolo. E alla fine, nonostante le tante parole di ammirazione per la natura e per i paesaggi bucolici, la Germania nazista era una macchina industriale, al servizio della guerra. Quando l'agognato conflitto arrivo', fu chiaro che non c'era posto per l'ambiente: tra suolo e sangue, era il secondo a contare davvero. Potremmo azzardare qui un paragone col cosiddetto nazismo esoterico, un aspetto che in molti prodotti di fiction (e non solo) e' stato presentato come una colonna portante del Terzo Reich nonostante per gli storici i nazisti non fossero affatto ossessionati dall'occulto, come spesso ci piace pensare. Questo valeva forse solo per Himmler e pochi altri, mentre la nozione che il Terzo Reich avesse chissa' quale legame con il magico e' stata del tutto smentita dai documenti.
In Italia possiamo fare un discorso simile riguardo al rapporto tra tutela ambientale e fascismo. Anche la nostra dittatura sanguinaria, complice del Fuhrer, e' intervenuta sul paesaggio in un modo che, in alcuni casi, almeno superficialmente, potremmo definire ecologista. In Green Rhetoric in Blackshirts: Italian Fascism and the Environment, Armiero e il collega Wilko Graf von Hardenberg (del Max Planck Institute for the History of Science) spiegano che anche i fascisti avevano la loro versione del mito del sangue e del suolo, modellata naturalmente sulle passate glorie di Roma. La natura doveva si' essere protetta, ma anche addomesticata, cioe' sfruttata per alimentare il regime e la sua propaganda. Non solo con le celebri bonifiche, una delle "cose buone" che ai revisionisti piace ricordare. Venivano anche imposte grandi infrastrutture idroelettriche e, accanto, interventi di riforestazione il cui vero scopo, pero', non era altro che proteggere dall'erosione i lucrosi invasi (e le riforestazioni erano sovvenzionate dalle stesse societa' idroelettriche).
Dopo la Marcia su Roma il fascismo istitui' anche dei parchi nazionali, come quello d'Abruzzo, di cui Mussolini appena insediato si intesto' il successo. Peccato che, a ben vedere, il lavoro per proteggere quell'area, e gli orsi che ci abitavano, era cominciato ben prima, in epoca liberale. In altri parchi poi il regime continuo' a costruire dighe, con gli stessi metodi. Nessuno di questi interventi pero' teneva in gran conto le relazioni ecologiche, e nemmeno di quelle sociali: il paesaggio doveva essere un'espressione del potere fascista, tanto sulla natura, quanto sulle persone. Per esempio, il fascismo cerco' di proteggere i nuovi boschi e il suolo dichiarando guerra all'allevamento di capre, ma quegli animali servivano a chi sulle montagne ci viveva: anche gli abitanti dovevano essere addomesticati.
Che cosa e' sopravvissuto
Ricondurre la nascita dell'ecologismo moderno al nazifascismo e' quindi sbagliato a piu' livelli. Da un lato, l'ambiente e' una questione politica da ben prima del Terzo Reich, o della Marcia su Roma. Nella storia umana sono esistite leggi a tutela dell'ambiente in moltissime civilta', e anche prendendo in considerazione il solo Ventesimo secolo, non e' possibile appiattire la discussione al presunto contributo di questi regimi. In secondo luogo, e' dimostrabile come quel tipo di ecologismo, se davvero cosi' si puo' chiamare, fosse solo un piccolo ingranaggio di una macchina del consenso e della repressione.
La domanda pero' rimane: quel primo ecofascismo ha comunque lasciato qualche pericolosa eredita' di cui oggi dovremmo preoccuparci? L'ecologismo puo' diventare un cavallo di Troia attraverso il quale normalizzare ideologie genocide? Nel saggio di Janet Biehl e Peter Staudenmaier Ecofascismo. Lezioni dall'esperienza tedesca (1995), la tesi degli autori e' proprio questa. A cinquant'anni dalla fine della guerra, qualche residuo di quella ideologia strisciava ancora nei discorsi di alcuni partiti e movimenti verdi in Germania, che in tempi non sospetti proponevano gia' un adagio che sarebbe diventato noto: non siamo ne' di destra, ne' di sinistra, siamo davanti. Uno slogan che gli autori del saggio riconoscono come storicamente ingenuo e politicamente fatale, dietro al quale si nascondeva (e spesso si nasconde ancora) l'estrema destra. Inquietanti simili sfumature si potevano trovare nello stesso periodo anche nei discorsi del Front National, in Francia, che provarono a porre il fenomeno migratorio all'interno della cornice della sostenibilita' ambientale: non possiamo accoglierli tutti.
E' possibile allora tracciare un filo rosso che parta, in maniera inequivocabile, da questi esempi a cavallo degli anni Novanta fino ai casi piu' recenti? Sappiamo del resto che oggi alcune comunita' di suprematisti bianchi si sono effettivamente avvicinate al discorso ambientale, e che a volte sono davvero convinte tanto della necessita' di mantenere pura la razza quanto dell'urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Per esempio, l'ormai noto "Sciamano di QAnon", Jake Angeli, al secolo Jacob Anthony Chansley, il piu' fotografato degli invasori del Congresso USA lo scorso 6 Gennaio, aveva partecipato anche ad alcune marce per il clima. Vale la pena notare che questa rivelazione e' stata immediatamente impugnata da Michael Shellenberger, influencer del negazionismo climatico cosiddetto "morbido", che accetta il riscaldamento globale antropogenico ma ne minimizza i pericoli. Nei suoi tweet Shellenberger, vicino ai Repubblicani, ha ventilato (senza ironia) l'ipotesi che Jake Angeli fosse un attore pagato. La giornalista scientifica Emily Atking ha puntualizzato: "il tipo con le corna non e' un attivista climatico, e' un ecofascista".
Ma possiamo davvero chiamare ecofascismo l'ideologia delle nuove destre, in USA e in Europa? Secondo Armiero e' di nuovo importante contestualizzare la loro reale portata. Nessuno dovrebbe aver difficolta' a riconoscere l'ideologia tossica di questi movimenti, e della loro pericolosita' abbiamo esempi concreti. "Ma dobbiamo considerare che se Casapound, per esempio, ha un gruppo 'ecologista' chiamato 'Foresta che avanza', non e' certo per questo che e' nota. Perche' dovremmo preoccuparci dei vari paraventi ambientalisti, quando e' cosi' evidente che sono accessori, e per altro sconosciuti ai piu'? La coscienza ambientale, vera o presunta, nuova o ritrovata, di questo tipo di gruppi e' insomma abbastanza irrilevante di fronte a tutto il resto". L'opinione dello storico e' simile a quella della filosofa Serenella Iovino, professoressa di Italian Studies and Environmental Humanities all'Universita' della North Carolina a Chapel Hill, che via mail mi scrive: "Per quanto mi risulta, l'ecofascismo e' una deriva del tutto minoritaria dell'attivismo ambientale, legata a temi come il credo nazista del Blut und Boden e a un'interpretazione molto 'selettiva' ed 'eclettica' (per mancanza di termini migliori) di alcune idee di Heidegger e di Arne Naess (fondatore della Deep Ecology). Non sono a conoscenza di nuclei 'ecofascisti' in Italia (di solito, anzi, i neofascisti nostrani, specie nelle loro simpatie militaristiche, sono abbastanza alieni a preoccupazioni ecologiche)."
Non si puo' nemmeno dire che sia una propaganda efficace, a conti fatti. Se guardiamo ai grandi movimenti ambientalisti, o agli stessi partiti "verdi" che ne dovrebbero esserne espressione, il moderno ecologismo e' tradizionalmente portato avanti (nel bene e nel male) da sinistra, dice Armiero. Anche quando i Verdi lavorano in parlamento con le destre, come e' accaduto in Svezia, non si tratta di destre nostalgiche, o autoritarie. "Sarebbe un grave errore dare a queste realta' un peso maggiore di quello che meritano".
Dall'ecofascismo all'ecoautoritarismo
Torniamo allora alla definizione provvisoria di Armiero. L'ecofascismo e' quando si affrontano i problemi ecologici in maniera autoritaria e senza considerare i problemi sociali di tutti e tutte. In fondo questa definizione, a ben vedere, non ha bisogno di ancorarsi a un preciso precedente storico. Nonostante il nome, l'ecofascismo non necessiterebbe cosi' di trovare le vere e proprie camicie nere che lo esercitano. Forse questo e' anche il motivo per cui la parola e' usata in maniera incoerente, piu' per colpire un avversario che per definirlo politicamente.
Proviamo allora a introdurre un concetto che e' spesso del tutto sovrapponibile, ma forse suona meno problematico da usare: ecoautoritarismo. Uno degli esempi piu' noti riguarda la conservazione della natura negli Stati Uniti. I grandi parchi nazionali americani sono un vanto della nazione, e sono stati un esempio per altri paesi, Italia inclusa. Raramente pero' ricordiamo che quando cominciarono a essere istituiti, a meta' dell'Ottocento, le popolazioni indigene eventualmente presenti non facevano assolutamente parte del disegno. Teddy Roosevelt fece della conservazione una priorita' della sua presidenza (1901 - 1909), ma e' anche passato alla storia per aver detto "Non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che nove su dieci lo siano, e non dovrei indagare troppo a fondo sul decimo". Come ha scritto di recente Prakash Kashwan su The Conversation, oltre un secolo dopo Roosevelt la conservazione della natura, che a livello mondiale e' in genere guidata da anglo-sassoni, ha ancora enormi problemi a riconoscere il ruolo delle popolazioni indigene. A questo proposito, basterebbe ricordare lo scandalo degli abusi commessi dalle milizie finanziate dal WWF per proteggere i parchi in diverse zone del mondo: dopo le denunce di Survival International relative alla persecuzione di pigmei Baka in Congo, un'inchiesta di Buzzfeed ha portato alla luce altri casi, offrendo prove che le comunita' indigene sono ancora oggi sacrificate nel nome della conservazione.
Del resto, come nota Kashwan, gli indigeni nei documentari sulla natura spesso sono invisibili, nella migliore delle ipotesi. Questo rimosso non risparmia nemmeno quelli in cui sono coinvolti mostri sacri della divulgazione, come David Attenborough. Nel documentario Wild Karnataka (2019), da lui commentato, e' stata oscurata, dalla narrazione, la presenza delle persone che chiamano casa quelle foreste e che hanno contribuito a creare e proteggere quella natura che vediamo nelle immagini mozzafiato HD del documentario. E' la retorica della wilderness, intesa nella sua forma piu' tradizionale. L'idea ottocentesca ed eurocentrica che esistano grandi spazi incontaminati da preservare, sul modello statunitense, a uso e consumo di chi li esplora per la prima volta. Questo concetto di "natura originaria", nota Iovino nel libro Filosofie dell'ambiente (Carocci, 2008) e' criticato da decenni da filosofi e storici come "un'invenzione", ma e' ancora utilizzato.
L'ecoautoritarismo e' piu' temibile e diffuso dell'ecofascismo, perche' puo' essere anche (provvisoriamente) lontano dall'estremismo. Puo' sembrare addirittura ragionevole, persino in contesti democratici. Se l'ambiente che ci sostiene e' in pericolo, se siamo in un'emergenza ecologica, non dovremmo essere disposti a soluzioni imposte dall'alto, purche' radicali? Armiero mi fa l'esempio della casa che va a fuoco: chiamiamo subito i vigili del fuoco, non facciamo un'assemblea di quartiere. Nel caso dell'ambiente, pero', questo decisionismo puo' diventare pernicioso, perche' tende a ignorare, o sopprimere, le lotte sociali a esso collegate.
Un possibile esempio di ecoautoritarismo viene allora dall'India, dove il governo ha lanciato un ambizioso programma di ripristino ecologico dei fiumi, che spesso accolgono i liquami prodotti nelle baraccopoli che sorgono sulle loro rive. Si tratta di un grave problema (senza contare il rischio delle piene) che il governo ha deciso di risolvere in maniera muscolare, semplicemente obbligando le persone a sparire da li', distruggendo le loro abitazioni.
Durante la conversazione Marco Armiero mi ricorda l'esempio di Chico Mendes, sindacalista e ambientalista brasiliano il cui pensiero e' spesso riassunto con la massima "L'ambientalismo senza lotta di classe e' giardinaggio". La lotta di Chico Mendes per preservare la foresta Amazzonica ando' di pari passo con quella per i diritti dei lavoratori che da quella foresta dipendevano. Lo stesso Mendes era infatti un seringueiro, cioe' un raccoglitore di caucciu'. Come molti, aveva cominciato a lavorare da bambino e l'istruzione gli era stata negata dagli stessi che lo impiegavano. Ormai adulto imparo' a leggere e comincio' la sua attivita' di sindacalista. Col declino dei prezzi della gomma, infatti, la foresta comincio' a essere bruciata e tagliata e la battaglia dei seringueiros per proteggerla si intreccio' con quella del movimento ambientalista. Mendes introdusse il concetto di riserva estrattiva, cioe' aree naturali protette, di proprieta' pubblica, ma che non escludono lo sfruttamento economico da parte delle persone, a partire dagli indigeni che ci vivevano dentro. Oggi la parola sostenibilita' e' abusata, usata come vuota parola d'ordine, ma negli anni Ottanta Mendes aveva davvero capito il suo significato. Era infatti convinto della necessita' di diversificare i prodotti estraibili dalla foresta, perche' valorizzare una sola risorsa (il legno, per esempio) esponeva ambiente e lavoratori a rischi maggiori. Fu assassinato nel 1988, a 44 anni, dal proprietario terriero Darly Alves da Silva e da suo figlio Darci, che materialmente premette il grilletto.
Stefano Dalla Casa
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Fonte: La Trappola Dell'Ecofascismo (di Il Tascabile)
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