Inizialmente registrano, nell'Ottobre del 2007, una demo contenente tre pezzi presso l'HateStudio di Vicenza, studio dove sono tornati a meta' gennaio 2009 per dar vita all'album Homo Homini Lupus, uscito agli inizi di questo mese grazie alla collaborazione con la Chorus Of One Records.
Iniziando a riflettere sul titolo dell'album, una citazione resa celebre dal filosofo Hobbes, possiamo farci subito un'idea di quali saranno i temi portanti espressi nelle canzoni.
Se infatti la frase latina si riferisce alla natura egoista e selvaggia dell'uomo, pronto a combattere contro tutti i suoi simili pur di affermare se stesso, l'intento della band e' quello di presentare le nefandezze, anche in maniera alcune volte ricercata e decisamente originale, di cui l'uomo si e' macchiato nel corso della storia contemporanea e, piu' in generale, degli atteggiamenti che lo rendono vittima degli eventi.
Nella prima canzone, "Kane" (diretto riferimento al celeberrimo film, in italiano Quarto Potere, di O. Welles), emerge tutto il disprezzo per quella enorme fetta di persone ormai succube dell'azione omologante dei mass media, incapace di reagire in cambio di un mondo creato ad arte dai poteri forti per controllare le masse.
La canzone, la piu' lunga dell'album, inizia con l'alternarsi preciso delle due voci per poi sfociare in un ritmo martellante dettato ottimamente dalla batteria, la seconda parte del pezzo si mantiene su ritmi veloci e apre ad un finale (Azzera lo share, pugnala l'auditel e ricomincia a pensare) dal tono rabbioso ma ben scandito, veicolando l'esortazione urlata dai cantanti.
Passiamo a "M.", questa seconda traccia scorre via in poco tempo e gia' nel primo minuto quasi la totalita' del testo viene pronunciata in un clima di angoscia mista ad uno sguardo colmo di emozioni verso il passato, sottolineando il dolore provocato dai ricordi e l'incapacita' di ritrovare se stessi. Le parole rispecchiano con una buona riuscita di sensazioni tutte al negativo, calando infine un nero sipario accompagnato dalle ultime parole cariche di rassegnazione.
Se guardiamo alla terza canzone, ci imbattiamo in un titolo che ci intriga, ovvero "Hibakusha", termine giapponese che scopro avere la funzione di indicare tutti coloro sopravvissero al bombardamento atomico nell'agosto del '45.
L'inizio ha una progressione incalzante e invita a ricordare di quella strage e del deserto, anche morale, che lascio' e ricorda la figura di Sadako, che aveva due anni quando avvenne il bombardamento e che riusci' a salvarsi a prezzo di diventare leucemica per via delle radiazioni e morire all'eta' di ventidue anni.
Le parole continuano a riportarci in un contesto drammatico dove l'umanita' lascia il posto all'orrore, qui rancore e rimpianto, veicolate con espressivita' dalle due voci, si fondono con l'irrazionalita' verso situazioni abominevoli.
Subito dopo sopraggiunge la consapevolezza per quello che e' stato, il ritmo diventa cadenzato e torna la lucidita' verso quanto si e' affrontato, prendendo coscienza degli eventi. La fine arriva mediante una tagliente considerazione nei confronti della strage giapponese e il ricordo di essere un hibakusha, un sopravvissuto.
A caratterizzare la quarta traccia, "Neve", e' un tema che dovrebbe essere affrontato e combattuto invece di essere puntualmente stigmatizzato e insabbiato, parliamo della pedofilia esercitata dagli ecclesiastici.
Tutto il testo e' una robusta invettiva, supportata da riff molto ben congeniati, contro questa infima categoria, quella religiosa. Coinvolgente l'interpretazione delle due voci, soprattutto nel finale introdotto da una batteria sempre puntuale.
Ecco che, con la quinta traccia "L'uomo infesta", viene naturale ricollegarci alle parole spese sul titolo dell'album, proprio perche' in questo pezzo vengono enucleati atteggiamenti e prese di posizioni che hanno trasformato l'uomo in entita' mostruosa e abietta. Parola dopo parola, le due voci urlano il dissenso verso l'operato umano nel corso della storia recente, amalgamandosi alla perfezione col suono delle chitarre.
Di colpo, a meta' dell'album, abbiamo l'occasione di ascoltare sonorita' decisamente diverse dalle precedenti ma anche da quelle che verranno dopo, tutto grazie ai due minuti e mezzo di sola musica che ha come titolo "Sabra e Chatila", due nomi di campi di concentramento nella periferia di Beirut dove nel 1982 persero la vita migliaia di palestinesi per mano di milizie cristiane libanesi.
Non spendero' parole su queste note, mi sembra che racchiudano la magia di evocare immagini e sentimenti decisamente personali, lascio ad ognuno questa sublime possibilita' di viaggiare con la mente.
La settima canzone, intitolata "Effetto domino", dura poco piu' di un minuto ed e' un concentrato di tragicita' e di consapevolezza della crisi ambientale che giorno dopo giorno manifesta i suoi effetti negativi, il tutto condito con una puntuale denuncia delle scelte scellerate dell'uomo e della sua incuranza verso l'ambiente, considerato solo una risorsa da sfruttare e non custodire. Un minuto e' poco ma risulta piu' che sufficiente per inglobare tutta la rabbia necessaria per dimostrare che l'ora della catastrofe e' sempre piu' vicina.
"Fino all'ultimo respiro", titolo dell'ottavo tassello di questo cupo mosaico, ci riporta ad un tema che, per via della vicenda Englaro, e' stato oggetto del solito sciacallaggio mediatico perpetrato dalle solite bocche e penne infami.
Gia' dalle prime battute il testo ci riporta a condizioni di vita asfittiche, dove non si e' liberi di esprimere le proprie sensazioni, anche quelle elementari. E' proprio questo ad impedire anche l'ultima richiesta, ma forse la piu' importante, quella di dire basta e di morire.
Religione e moralismi d'ogni sorta, sono questi i bersagli della critica impetuosa espressa da un cantato collerico che non risparmia nemmeno il tabu' della morte, come se fosse un aspetto trascurabile dell'esistenza e addirittura escluso dal personale libero arbitrio. Le parole finali, sullo sfondo di una batteria martellante, ci ricordano come la legge, non sazia dei suoi ambiti, debba anche sentenziare sulla nostra morte.
Una intro di poco superiore al minuto ci introduce a "Stato d'assedio", penultimo pezzo in cui ritorna di prepotenza un anticlericalismo che gia', in precedenza, abbiamo avuto modo di ascoltare e di valutare.
Le battute sono equamente divise tra Tom e Seba, dalle loro voci esce l'immagine di una chiesa che, grazie all'arma della religione, si consolida come business mondiale e istituzione pericolosa al pari di quella statale, capace anch'essa di esercitare dominio sulle masse e di dettare una morale comune.
Eccoci, infine, al traguardo e quindi all'ultimo pezzo "Tempi moderni". Ad esser trattato e' un tema non meno importante dei precedenti, parliamo degli omicidi le cui vittime sono i lavoratori e i cui mandanti sono i padroni e le condizioni disumane di lavoro.
Anche in questo pezzo, anche se non c'era bisogno di riconferme, nessuna parola e' detta a caso, i 400Colpi rimangono coerenti con la loro linea di denuncia e di consapevolezza critica della realta'. Particolare riferimento alla strage della ThyssenKrupp e all'atteggiamento sterile di una classe operaia incapace (forse anche riluttante) di reagire.
Credo di aver detto tutto, forse anche piu' del dovuto, ma ci tengo a dire che ho davvero apprezzato questo album, e ringrazio i 400Colpi per aver trasposto in musica le tematiche che, quotidianamente, ci fanno (o almeno dovrebbero) riflettere.
Sghigno
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