"Dalla scarsita' all'abbondanza"
Ma se c'e' un mondo che non ha problemi di siccita' musicale e' proprio quello in cui viviamo. Siamo assediati dalla musica. Allo stadio o nei centri commerciali, in metropolitana o sull'aereo, non e' rimasto luogo mobile o immobile che ormai non sia immerso in una colonna sonora infinita; dagli smartphone ai tablet, da cio' che rimane dei vecchi lettori MP3 a cio' che avanza dei nuovi orologi smart, non esiste dispositivo portatile che non presenti robuste funzioni di jukebox, potenziate dalla possibilita' di agganciarsi a cloud dove ci attendono milioni e milioni di canzoni. In ogni luogo, in ogni lago. Nelle nostre orecchie si riversa il frutto di una rivoluzione gia' avvenuta, probabilmente la piu' radicale, straordinaria e disrupting che l'avvento del digitale ha generato nell'intrattenimento musicale: il passaggio dalla scarsita' all'abbondanza. Se proprio vogliamo scendere in strada, forse dovremmo farlo per la ragione opposta. Per chiedere un po' di silenzio. O almeno un buon silenziatore che ci permetta di eliminare il rumore e ascoltare solo cio' che merita e/o piace.
Che il music overload si stia trasformando in un problema sempre piu' concreto, diffuso e sentito, se ne sono accorti anche i servizi che sull'abbondanza di contenuti hanno creato e stanno sviluppando il proprio business. In primis, quelli che oggi i bookmaker indicano come futuri dominatori dell'ascolto musicale globale: le piattaforme streaming. Non a caso, nelle loro campagne promozionali e' ormai sfilato in secondo piano il richiamo alla vastita' dei cataloghi, sostituito dall'accento posto sui sistemi di curation e music discovery. Non e' piu' cosi' importante sbandierare la disponibilita' di trenta milioni di canzoni (ormai diamo per scontato che qualsiasi servizio ci fornisca almeno trenta milioni di canzoni!), mentre e' diventato fondamentale promettere all'utente strumenti di selezione e filtraggio che lo aiutino ad ascoltare solo il meglio, cancellando il fastidio del rumore e la paralisi della scelta. Apple Music, per esempio, il nuovo servizio streaming lanciato a Giugno da Cupertino, ha puntato gran parte delle sue carte promozionali su Beats1, la web-radio che ne ha accompagnato la nascita. L'infrastruttura tecnologica ha la sua importanza, ma per Apple ne hanno avuta molta di piu' l'assemblaggio e la presentazione della squadra di curatori e dj di Beats1, frutto di una campagna acquisti lunga e costosa che ha coinvolto il mondo radiofonico mainstream (Zane Lowe, portato via dalla rete ammiraglia della BBC), il versante alternativo dei blog e della moderna pubblicistica online (Pitchfork), il serbatoio delle pop, rock e hip hop star (su Beats1 conducono programmi Dr. Dre, Josh Homme, Elton John, St. Vincent...). Parafrasando X Factor: "Non si puo' vivere in un mondo senza musica. La Beats1 Revolution e' finalmente arrivata al suo culmine: milioni di rivoluzionari, capitanati da Zane Lowe, Ebro Darden e Julie Adenuga (i tre dj-simbolo della radio) si riversano sugli smartphone per ridare la musica cool al mondo".
La strada dei curatori in carne e ossa, scelta anche dalla piattaforma italiana TIMmusic con il direttore artistico Alessio Bertallot, e' solo una delle possibili. Spotify, l'attuale lepre nella grande corsa degli abbonamenti streaming, ne sta percorrendo un'altra, lastricata di algoritmi e intelligenza artificiale. Nella prima meta' del 2014, mentre Apple staccava un assegno da tre miliardi di dollari per assicurarsi Beats (titolare del servizio su cui e' stata costruita Apple Music), Spotify investiva un gruzzoletto di cento milioni di dollari per incorporare The Echo Nest, una societa' specializzata nell'analisi dei Big Data generati all'interno dei grandi network digitali. Obiettivo: sviluppare nuovi strumenti di music discovery basati sullo studio iper-dettagliato delle abitudini d'ascolto degli utenti. Alcune delle creature prodotte nei laboratori di The Echo Nest vengono regolarmente messe in vetrina sul blog Spotify Insight, altre finiscono nella plancia di comando su cui gli utenti impostano la propria colonna sonora quotidiana. Manifesto di questa linea e' una delle novita' piu' recenti, la playlist "Scopri: Novita' della settimana", dove ogni sette giorni Spotify suggerisce ai suoi abbonati un menu' personalizzato di nuove canzoni, scelte incrociando i trend di popolarita' dell'intera base di ascoltatori e le preferenze personali del singolo utente (per i servizi digitali noi siamo un po' come il maiale: delle nostre attivita' non si butta via niente). Da un certo punto di vista, e' come se Beats1 e "Scopri" utilizzassero dinamiche esattamente opposte nella costruzione e diffusione del loro palinsesto musicale. Seguendo una direzione da uno a molti, dal dj umano alla massa di ascoltatori, nel caso della web-radio globale di Apple; e da molti a uno, dall'intelligenza artificiale collettiva al singolo utente, nel caso della playlist personalizzata di Spotify. L'obiettivo finale rimane pero' lo stesso: indirizzare i nostri ascolti.
Ed e' su questo aspetto che, in mezzo allo stupore per la scintillante tecnologia, aleggia qualche fantasma. Per esempio, quello di una potenziale payola 2.0. Che non sarebbe un allucinogeno messicano di nuova generazione, bensi' la replica in salsa digitale di uno scandalo che coinvolse l'industria discografica e radiofonica statunitense tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso. All'epoca si scopri' che alcune etichette pagavano di nascosto i dj per trasmettere i loro dischi. Internet era ancora un embrione di idea nella mente degli scienziati del Pentagono, la radio era il mezzo privilegiato per trainare il successo di una canzone: un aumento di airplay significava un'automatica impennata di vendite di dischi. Per ora non esistono prove che il fenomeno si stia ripetendo tra streaming e playlist, ma gli indizi che prima o poi qualcosa del genere possa accadere certo non mancano. Prendiamo il meccanismo di monetizzazione degli ascolti: ogni stream di una canzone genera un piccolo guadagno per gli artisti e le label. Presi singolarmente sono nano-spiccioli, moltiplicati per migliaia o milioni di ascolti valgono tutto un altro discorso. Non e' un segreto che riuscire a trovar spazio nei programmi di punta di Beats1 o nelle playlist piu' popolari di Spotify stia diventando un obiettivo molto ambito e altrettanto condiviso nell'ambiente musicale, in particolare in quello che si rivolge al pubblico dei millennials, i piu' voraci fruitori di servizi streaming. Vuoi che qualcuno non stia gia' cercando qualche scorciatoia poco ortodossa? Cattivi pensieri, forse. Alimentati pero' da uno dei grandi problemi della giovine industria dello streaming: l'assenza di trasparenza. Tra nebulosi meccanismi di distribuzione royalties, contratti a piu' velocita', anticipi segreti garantiti e arcani intrecci nelle proprieta' delle aziende, i protagonisti del settore non fanno proprio di tutto per aiutarti a non pensare male.
C'e' poi un altro aspetto, dai connotati forse piu' filosofici, che spinge a guardare con un briciolo di diffidenza ai nuovi trend di music discovery digitale. Oltre a sdoganare l'idea del gratis (con effetti ancora complessi da gestire), la stagione corsara di Napster e del P2P ha scardinato alcuni elementi poco virtuosi dell'industria musicale del Novecento. Su tutti, dal punto di vista dell'ascoltatore, quel senso di costrizione che si provava di fronte alle radio che trasmettevano le solite canzoni, a MTV su cui giravano i soliti video, ai dischi di cui si leggeva sulle riviste e che - per costo, rarita', obsolescenza - risultavano spesso impossibili da raggiungere. Da appassionato di musica, ogni giorno avevi la sensazione di non poter ascoltare tutto cio' che volevi. Una sensazione che oggi sta tornando a diffondersi per le ragioni opposte: possiamo ascoltare tutto cio' che vogliamo, ma - per motivi quasi sempre riconducibili all'uragano di input, suggerimenti, impegni e notifiche a cui ci sottoponiamo quotidianamente - non riusciamo a farlo. O non ci interessa piu' come in passato. E torniamo cosi' a delegare la selezione a qualcun altro, innescando un interessante paradosso post-digitale: il ripristino volontario, piu' o meno inconscio, di quella scarsita' da cui nel secolo scorso abbiamo cercato di fuggire. Qualcosa che avviene in perfetta e non casuale simbiosi con la trasmigrazione tecnologica da un ambiente piu' libero e orizzontale come il web a uno piu' controllato e verticale come quello delle app per smartphone. Forse e' un processo inevitabile: la bandiera bianca che la nostra mente analogica alza di fronte all'incessante moltiplicazione di contenuti digitali. Ma rimane l'impressione che si tratti di un ripiego, una soluzione di basso profilo, nonche' uno scivolo verso un'omologazione culturale di ritorno (spesso pilotata da decisioni dall'alto che seguono ragioni piu' commerciali che artistiche: vedi il rischio payola). Sarebbe meglio se la sopravvivenza all'abbondanza musicale non fosse affidata solo a strumenti come Beats1 o "Scopri" (per quanto innovativi e di qualita': il loro ascolto ha accompagnato la stesura di queste righe) ma anche allo sviluppo e al rafforzamento di personali liberta' di selezione. Con il necessario contributo della tecnologia, a cui - oltre che playlist pompate in endovena - dobbiamo chiedere sempre piu' efficienti strumenti di ricerca, che ci aiutino a godere di un patrimonio che emana vera luce solo se si ha la possibilita' di esplorarlo attivamente e liberamente, scavando nelle meraviglie della sua vastita'. Alcuni segnali sono allarmanti: per esempio, la limitazione di alcune funzioni di ricerca nelle ultime versioni di Spotify o la decisione di Apple di accelerare il passaggio alla dimensione cloud intervenendo sugli archivi personali di iTunes (modificando collezioni spesso costruite con cura certosina dagli utenti). Sarebbe un peccato se sopravvivere all'abbondanza, nella musica e non solo, significasse di fatto rinunciare all'abbondanza.
Luca Castelli
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Fonte: Musica 3.0 (di Le Macchine Volanti)
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