La musica la scoprii piu' tardi. A volte succede. Magari quando uno si lascia prendere troppo la mano da cose che sul momento si ritengono davvero importanti: la politica, la voglia di combattere le ingiustizie, il desiderio di cambiare il mondo con la forza della ragione. Cosa diavolo potevo farmene delle poesie? Piuttosto sentivo l'esigenza di aggredire la societa', di farla sanguinare con la rivolta; ma ero solo, non sapevo come fare e la confusione regnava sovrana nel mio cervello.
Quando la controcultura punk inizio' a germogliare anche in Italia, suppergiu' nel 1979, mi sentii molto piu' a mio agio. Per dirla tutta non so cosa sarebbe stato della mia vita se non fosse intervenuto il punk a salvarla. Band come Dead Kennedys, Crucifix, Millions of Dead Cops avevano un suono aggressivo e vibrante e un tipo di prospettiva politica radicale. Mi piaceva, preferivo tutto cio' a un approccio puro alla politica.

Naturalmente le parole restavano importanti. E anche la gestualita', e anche il contatto diretto con chi ascoltava. Per me la musica era solo uno strumento per esprimere la rabbia.
La gente ha da sempre una pessima percezione della rabbia. Spesso siamo portati ad associarla alla violenza e al dolore, invece esprimere la propria rabbia aiuta a vivere. Prima di ascoltare i Black Flag o i Minor Threat, prima di cantare in un gruppo e salire sul palco, non sapevo come farlo. Mettevo tutto dentro, fino a esplodere in maniera incontrollabile. Col punk imparai a indirizzarla, a non averne paura, a trarne profitto. Forse accadde perche' il punk non era solo un genere musicale. Se si manifestava solo nella musica era perche' altri canali erano diventati impraticabili. Che forza d'impatto e che credibilita' avevano ormai l'arte, la politica, la filosofia? Uno la musica poteva costruirsela come gli pareva. Dopo tutto lo strumento piu' importante era il corpo umano, e anche un corpo malato poteva bastare, perche' poi entravano in scena le parole. Per forza di coerenza finivamo col viverle nella loro piu' intima essenza, le parole. Perche' il punk, soprattutto per quelli come me che avevano un gruppo e andavano in giro a suonare, era anche un furgone scalcinato che camminava per centinaia di chilometri al giorno, era dormire sui pavimenti delle case occupate, era telefonare ogni sera alle mogli e alle ragazze, e magari ai figli solo perche' si era rimasti coinvolti in alcune cose. Essere punk significava avere il pieno controllo del nostro corpo, della nostra vita e delle nostre attivita', fregarsene delle regole e del mercato, insomma fare cio' in cui si credeva veramente.

Ricordo solo due dischi che amai indipendentemente dai testi: Faith dei Cure e Five Leaves Left di Nick Drake. Ma qui entriamo in un contesto indecifrabile e per molti aspetti incongruente. Sono due dischi lontani anni luce dall'urgenza espressiva del punk, senza suoni che lacerano la carne in profondita', parossismo convulso o scariche di incredibile intensita'. Niente lava incandescente, insomma, solo una malinconia crepuscolare morbida e avvolgente. Deve esserci qualcosa la' dentro che ha il potere della magia, perche' riusci' a raggiungermi indipendentemente dal resto, a scorticare il mio fondamentalismo hardcore e a regalarmi un angolo di buia e tranquilla felicita'.

Per darvi un'idea di quanto mi piaccia spingermi al margine dovrebbe essere sufficiente raccontarvi questa storia. Da ragazzo avevo pochi soldi, quasi sempre me li procuravo risparmiando sul cibo, e spenderli tutti in una volta per comprare il disco sbagliato equivaleva a una tragedia. Se vogliamo una piccola tragedia, ma molto piu' grande della mia capacita' di sopportarla. Cosi', prima di acquistare un disco, controllavo sempre che nella confezione interna fossero contenuti i testi delle canzoni. Magari la musica faceva schifo, ma se le parole mi toccavano allora andava bene. Me le bevevo, le parole. Ci gozzovigliavo. Il pezzo che non mi faceva dormire la notte si chiamava Holiday in Cambodia dei Dead Kennedys.

Era sarcastico, sferzante, proprio il tipo di roba che mi sarebbe piaciuto scrivere. Quando cominciai a buttar giu' i testi per il mio primo gruppo, nel 1982, riuscii a tirar fuori abbastanza bene i miei sentimenti e la mia rabbia, ma non a essere sarcastico e cattivo come Jello Biafra dei Dead Kennedys. All'inizio fu un tormento, poi mi ci abituai un po', ma mai completamente. A distanza di trent'anni e' sempre la stessa storia. Ogni volta che gli Affluente hanno materiale sufficiente per registrare un nuovo disco e mi chiedono un contributo per i testi, un mostro deforme e repellente mi si materializza davanti con un potere ipnotizzante e io sprofondo in una specie di panico. Allora una voce, sempre la stessa, comincia a scuotermi dentro. Sembra un martello. Mi colpisce sulla fronte, sulle tempie, dappertutto. Per quanti sforzi faccia non posso fare a meno di riconoscere che la paura delle parole, l'ossessione della scrittura, l'assedio umanistico, hanno sempre dominato la mia vita.
Carlo Cannella

.NOTA.
Carlo Cannella e' nato ad Ascoli Piceno nel 1963. Attivo nel movimento anarco-punk italiano fin dai primi anni Ottanta, e' stato fondatore e voce di alcune fra le piu' amate hardcore band: Dictatrista, Stige e Affluente. Ha scritto i libri: La Citta' e' Quieta...Ombre Parlano (Senzapatria, 2010) e Tutto Deve Crollare (Perdisa Pop, 2011).

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Fonte: Essere Punk (di Carlo Cannella)
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