I suoi occhi... i suoi occhi sono la cosa che mi e' piu' difficile dimenticare. Tutto il resto affiora come un'immagine sfocata che potrebbe essere stata manipolata dal tempo e dai miei neuroni, ma i suoi occhi, o meglio, il suo sguardo e' nitidamente impresso nella mia memoria. Mi pare di vederlo ancora adesso. E ancora adesso mi da' un brivido.
Parlava e parlava con un'urgenza che non dava adito a repliche. Mi pareva di vedere il flusso delle sue parole come cartucce allineate sul nastro di una mitragliatrice che dal cervello si avvolgeva intorno ai polmoni proseguendo verso la gola per essere sparate dalla bocca in una raffica infinita di proiettili che sibilavano sopra le nostre teste e si schiantavano sul muro alle nostre spalle.
"Pensate che va tutto bene cosi'? Che anche se non va bene non possiamo farci niente? E allora che cazzo vi disegnate le A cerchiate sulle giacche a fare? Perche' ascoltate i Dead Kennedys? Voi siete giovani, e non siete i borghesi che vanno alle festine a raccattare le fighette pettinate, no? Cosa ne volete fare della vostra vita?"
Con gli occhi ci puntava dritto per interminabili minuti, poi ogni tanto distoglieva lo sguardo buttandolo rapidamente verso la porta di ingresso del bar o verso il bancone. In quegli attimi un'espressione diversa gli attraversava il viso, e pareva di poterci leggere il suo pensiero "Ma perche' sto perdendo tempo con questi bambocci... ".
Il bar era pieno come ogni Sabato. Non era altro che un bar come mille altri. Durante tutta la settimana era popolato dai pochi avventori abituali, soprattutto pensionati, che passavano di li' per la schedina del totocalcio e poi si fermavano a giocare a carte ai tavolini.
Il design dell'arredamento dimostrava con evidenza i suoi trent'anni anche se il proprietario non smetteva mai di lucidare con attenzione maniacale ogni ripiano in formica ed ogni profilo in metallo cromato.
La vetrinetta sul bancone che durante la settimana ospitava qualche improbabile tramezzino, al Sabato si riempiva di panini con salame, prosciutto o formaggio per il famelico pubblico di ragazzi del fine settimana.
L'apertura del negozio di dischi affianco era stata una vera benedizione per i bilanci del modesto esercizio.
Da quando aveva aperto la saracinesca in quell'angolo di passaggio della citta' il bar aveva incominciato a diventare la meta di decine e decine di ragazzi che arrivavano da tutta la provincia. In moto, in autobus o a piedi dalla stazione dei treni, ogni Sabato, fin dalle prime ore del pomeriggio.
Riempivano il piccolo negozio, sfogliavano le migliaia di dischi stipati negli scaffali, ne comperavano un paio e passavano il resto del giorno al bar affianco chiacchierando di musica, musicisti o semplicemente dei fatti loro.
Anche io e Marco non mancavamo un Sabato pomeriggio. Ci passavamo anche durante la settimana, visto che la nostra scuola era a pochi passi e non abitavamo lontano. Anzi a dire la verita' il negozio stava proprio a meta' strada tra casa mia e casa sua.
Ma il Sabato era tutta un'altra cosa. Il negozio si riempiva di facce nuove e di musica. Chiunque comperasse un disco chiedeva prima di poterlo ascoltare e cosi' tutti venivamo aggiornati sulle ultime novita'.
Negli altri giorni il commesso si ascoltava solo la sua roba, che in gran parte era della musica elettronica sperimentale che a noi non interessava per niente.
Nel fine settimana pero' faceva il grosso dell'incasso settimanale e non si poteva certo tirare indietro. Quello che andava per la maggiore tra i clienti al tempo era il metal, il punk e la new wave. Tutti generi che rientravano pienamente tra i nostri preferiti.
Neanche a dirlo noi comperavamo poco. Pochissimo. Ma passare i pomeriggi li' ci aveva permesso di aumentare notevolmente il nostro giro di conoscenze, sia personali che musicali. E ci aveva riempito la testa di nuove idee e suggestioni.
In quel periodo in particolare cercavamo un bassista, visto che io cantavo e suonavo la chitarra e Marco si era fatto regalare una batteria di cui cominciava a capire il funzionamento. Mancava solo un bassista per completare il nucleo della nostra prima band, e del resto si sa che chiunque puo' diventare un bassista in poco tempo. Quindi la nostra ricerca era estesa a chiunque avesse anche solo voglia di farsi coinvolgere.
Non avevamo ancora avuto fortuna. Probabilmente perche' eravamo i piu' sbarbi nel giro, e nessuno ci dava fiducia.
Proprio quel Sabato pero' il tipo si era seduto al nostro tavolo e aveva incominciato a parlarci. "Mi hanno detto che cercate un bassista. Ma volete fare un complessino di amici o volete spaccare il culo al mondo intero?".
Cosi' aveva esordito. Noi di vista lo conoscevamo gia', in un certo senso era una celebrita' in quel circolo ristretto di persone. Girava quasi sempre da solo. Era alto e robusto, sempre vestito nello stesso modo, indifferente alle stagioni e a i cambi di temperatura. Indossava prevalentemente anfibi alti, jeans attillati, un maglione dell'esercito, verde e con le spalle rinforzate, il chiodo e un berretto di lana.
Non parlava spesso con la gente, con noi in particolare non lo aveva mai fatto, ma a volte si lanciava in comizi al bancone del bar, che potevano riguardare l'heavy metal delle origini, il combattimento corpo a corpo, le religioni orientali o l'etica dei cavalieri templari.
Che assumesse altre sostanze oltre all'alcol era evidente, ma io non avrei saputo dire quali. Probabilmente un mix articolato.
I suoi gusti musicali sembravano spaziare in tutte le direzioni del rock. Quel giorno prima di sedersi con noi aveva comperato un bootleg dei Judas Priest e una ristampa dei Crime di San Francisco. Aveva infilato i dischi nelle saccocce in cuoio della sua Honda Shadow ed era entrato al bar.
Il suo approccio ci aveva spiazzato ma Marco senza perdersi d'animo aveva incominciato a parlargli di quello che avevamo in testa. Delle influenze che volevamo dare alla nostra musica, del fatto che comunque avevamo gia' una sala prove, gentilmente concessa dalla parrocchia di Marco dove era presente la strumentazione completa.
Io sul momento gli avevo tirato un occhiata tipo "Ma sei matto?", ma dopo averlo ascoltato la cosa era cominciata a sembrare possibile anche a me. In fondo cosa avevamo da perdere? Ci sarebbe stato di sicuro da divertirsi e provare non ci costava nulla.
Si faceva chiamare Shere Khan, come la tigre cattiva del Libro della Giungla.
Ha ascoltato Marco annuendo con la testa, poi e' partito con uno sproloquio senza fine mescolando nomi di band, proclami rivoluzionari e anti-borghesi e propositi bellicosi.
All'improvviso si e' interrotto e si e' alzato per andarsene. Quando era gia' in piedi si era girato e aveva chiesto a me, che al momento ero l'unico che non aveva ancora detto praticamente una parola, "Quando ci vediamo?".
"Giovedi' alle sette va bene?", ho risposto esitante.
"Si va bene, ci vediamo li"
"Hai capito dove?" ha aggiunto Marco.
Troppo tardi era gia' partito.
Il Giovedi' successivo con solo una decina di minuti di ritardo e' apparso in sala prove.
Io e Marco avevamo gia' iniziato a suonare qualcosa. Dubitavamo fortemente che si sarebbe fatto vedere, e invece e' arrivato con un basso fissato sulle spalle con una tracolla. Era anche un bel basso a vedersi, un Aria color legno con il disegno di un Fender Precision.
Senza troppi preamboli si e' attaccato all'amplificatore e ha incominciato a fare il giro dei Ramones che io e Marco stavamo strimpellando.
Incredibile, sapeva suonare! Niente di troppo complicato ma alla fine se la cavava forse meglio di noi due.
Abbiamo continuato insegnandogli qualcuno dei giri che provavamo in quei giorni e lui ha proposto a noi dei giri suoi. Soprattutto cercava di farci fare degli stacchi e delle variazioni che faticavamo a eseguire e che non erano davvero male.
Eravamo increduli, non avremmo scommesso una lira su Shere Khan come musicista e invece si era rivelato una sorpresa.
Anche lui sembrava preso bene, si vedeva che si stava divertendo. Nonostante non mollasse la sua impostazione da duro di strada si stava sciogliendo, sorrideva e si muoveva a tempo. Era evidentemente divertito e soddisfatto.
Dopo un paio d'ore di musica siamo usciti dalla stanza, ci siamo seduti su una panchina nel piccolo giardino della parrocchia e Shere e' andato a prendere tre lattine di birra che aveva nelle tasche della moto.
"Avete gia' un nome per la band?" ci ha chiesto dopo essere rimasto in silenzio per un po'.
Ci siamo guardati, poi Marco ha detto "Blue China" senza aggiungere altro.
Il nome lo aveva trovato lui ed era giusto che fosse lui a dirlo. Era la prima volta che veniva pronunciato se non nei discorsi tra noi due, e in quel momento l'idea che si portava appresso, quella di avere una band, suonare, proporre le nostre idee agli altri, prendeva forma e diveniva concreta al di fuori delle nostre fantasie.
"Blue China" ha ripetuto lui "e cosa significa?".
"E' il titolo di un film" ha continuato Marco "un film in cui un prete cerca di redimere una prostituta usando un vibratore a forma di crocefisso".
Ha omesso di dire che il titolo corretto era China Blue, come abbiamo scoperto quando siamo andati in cerca della videocassetta per vederlo. Marco ne era venuto a conoscenza leggendo una recensione ma aveva memorizzato il titolo in sequenza sbagliata.
Tuttavia ormai ci era entrato in orecchio cosi' e avevamo deciso di non cambiarlo.
"Mi piace" ha detto Shere Kahn, non senza le sue solite pause enfatiche, "puo' funzionare".
Poi si e' alzato senza dire niente, ha sistemato il basso sulle spalle ed e' salito sulla moto. Dopo aver acceso il motore ci ha fatto un cenno con la mano e ha aggiunto "Ci vediamo Giovedi' prossimo".
Quando gli amici del giro del Sabato hanno saputo che suonavamo con Shere Kahn si sono sentiti in dovere di metterci in guardia.
"Ma lo sapete che e' un pazzo? Che fino a qualche tempo fa girava con i nazi della sua zona? Si dice che traffichi in armi e in esplosivi e ha gia' una fedina penale bella lunga. Oltre a tutto cio' si fa..." ci ripetevano in tanti.
Noi facevamo spallucce, minimizzavamo; oramai l'idea di suonare con lui ci era entrata in testa e ci eravamo gia' affezionati.
"Non sappiamo nulla del suo passato, ma sa suonare e ci pare bravo e con noi finora si e' comportato bene." Tagliavamo corto. "E poi sono mesi che cerchiamo un bassista e lui e' l'unico che si e' fatto avanti".
Intanto le settimane passavano e le nostre prove del Giovedi' proseguivano. Nel giro di un mese avevamo gia' diverse cover e due pezzi originali. Io stavo un po' alla volta imparando a cantare e suonare contemporaneamente, Marco aggiungeva nuovi trucchi, tempi e stacchi e Shere suonava ogni volta come se fossimo sul palco di Wimbledon.
Al di fuori della sala prova non ci vedevamo mai, ma anche il nostro rapporto si poteva dire che stesse crescendo. Aumentava la confidenza e il feeling e a volte Shere arrivava addirittura a scherzare e ridere con noi. Avevamo scoperto che aveva anche un discreto sense of humor, per quanto del tutto particolare.
Nel resto del tempo io e Marco eravamo impegnati con i nostri impicci, soprattutto gli impegni scolastici e i nostri complicati e impacciati approcci con l'universo femminile. Cosa facesse Shere non lo sapevamo.
Non avevamo mai avuto il coraggio di chiedergli se lavorasse o no. Ci avevano detto che viveva solo, in un piccolo casolare malmesso in mezzo al bosco di una delle colline a poca distanza dalla citta' e non ci eravamo fidati a chiedergli di piu'. Eravamo sempre preoccupati dal fatto che si potesse scocciare e mollare tutto proprio adesso che le cose andavano bene.
Nel frattempo era giunta l'estate e passavamo la maggior parte delle serate in centro citta', gironzolando intorno ai locali che frequentavano tutti. La band ci aveva donato una nuova credibilita'; la misuravamo attraverso l'aumentare dei saluti che ricevevamo passeggiando tra i coetanei e dal numero crescente di persone che volentieri si fermava a scambiare due chiacchiere con noi.
Va da se' che questo facilitava anche l'approccio con le ragazze e apriva nuove prospettive.
In centro avevamo anche il nostro punto di incontro, dietro il grande duomo, in un vicolo che portava dalla facciata della chiesa ad una piazzetta sul retro. Aveva lo stile di una piccola calle veneziana con un tocco gotico, oltre ad essere riparato dagli sguardi. Uno poteva passarci davanti per anni senza notarlo se non ci faceva caso.
Ci trovavamo li' al pomeriggio, sedendo sul gradino in marmo che dava accesso alla porta del campanile e da li' partivamo per le nostre esplorazioni della citta'. Oppure a volte tornavamo li' a chiacchierare tra noi quando l'ambiente mondano dei locali ci aveva stufati.
Proprio in una di quelle sere, mentre stavamo animatamente discutendo su chi fosse piu' figo tra i Joy Division e i Bauhaus seduti su quello scalino, abbiamo visto Shere Khan uscire dal portone di un palazzetto antico che affacciava sulla piazza davanti al nostro vicoletto.
Shere Khan non ci aveva visti; la piazza era illuminata fiocamente da un paio di lampioni, il vicolo invece era immerso nell'oscurita'.
Lo abbiamo riconosciuto subito e ci siamo guardati indecisi sul da farsi, ma prima che prendessimo una qualunque decisione una seconda persona e' uscita dal portone.
Il secondo uomo con due veloci falcate ha raggiunto Shere che si era gia' incamminato nella nostra direzione ed entrambi si sono fermati in parte all'accesso del vicolo.
Spontaneamente e in silenzio ci siamo acquattati sul muro opposto in modo da poterli ascoltare senza essere visti.
Noi quell'uomo lo conoscevamo.
Era venuto a scuola nostra solo poche settimane prima, insieme ad un medico e ad un assistente sociale del comune, a parlare agli scolari riguardo ai danni e i pericoli della droga.
Era il vice questore della citta'.
E anche il portone da cui erano usciti lo conoscevamo. Il palazzetto ospitava unicamente lo studio legale del padre di un mio compagno di scuola, avvocato.
"Guarda Giovanni che sta volta non e' 'na finta come al tribunale, se va storto qualcosa ti faccio fuori!" aveva sibilato gelido il vice questore e subito si era allontanato nella direzione opposta, sentivamo i suoi passi da dietro l'angolo.
Pochi secondi dopo anche Shere Khan e' ripartito, lo abbiamo visto attraversare lo specchio di luce dell'imbocco del vicolo dove eravamo nascosti ridosso alla parete, proseguendo verso la strada principale.
Siamo rimasti in silenzio, elettrizzati e nervosi, con il fiato sospeso e appiattiti sui mattoni ancora per qualche minuto. Poi guardandoci ci siamo chiesti "Ma che cazzo e' successo? Cosa combina quel balordo?". Tra l'altro era la prima volta che sentivamo pronunciare il suo vero nome.
Quando ci siamo trovati a suonare nelle settimane successive ovviamente non abbiamo chiesto nulla, anche se quel pensiero ci ronzava ancora in testa. Se prima vedevamo Shere solo come un personaggio misterioso ora ne eravamo un po' spaventati.
Del resto non c'era modo di andare a fondo alla questione. Ma neppure di dimenticarcene.
Un bel giorno Marco arriva e mi dice "Ci sono arrivato! Hai presente la bomba al Tribunale? Shere Khan traffica con gli esplosivi... E ha fatto un lavoretto dimostrativo conto terzi".
Solo sei mesi prima nel tribunale della citta' era stato rinvenuto un ordigno potenzialmente letale. Una bomba completa di innesco e timer abbandonata in un sacchetto della spesa sotto una sedia in corridoio, perfettamente funzionante ma lasciata appositamente disinnescata. Ne avevano parlato tutti i giornali, anche quelli nazionali. Si era detto che avesse a che fare con alcuni processi contro esponenti dell'estrema destra che proprio in quel tribunale si stavano preparando. Un avvertimento.
Oppure poteva essere stata la malavita che traffica in stupefacenti, che a sua volta aveva delle indagini in corso nella stessa procura. Ad ogni modo non era emerso nessun indizio per indirizzare le indagini e i giornali avevano semplicemente smesso di parlarne.
"Ma che cazzo dici?" e' stata la mia prima istintiva risposta, ma poi pensandoci e parlandone l'ipotesi non sembrava cosi' assurda. Anche le frequentazioni di cui ci avevano parlato legavano Shere a certi ambienti.
"A me piu' che un bombarolo fascista Shere sembra un tossico bruciato comunque", cercavo di buttare acqua sul fuoco. In ogni caso come potevamo sapere di piu'? E comunque cosa avremmo potuto fare? E perche'?
Il perche' era evidente. Avevano parlato di un'azione vera e propria a differenza di quella dimostrativa del tribunale. E questo significava una vera esplosione e dei morti veri. Qualcosa dovevamo fare.
Si, ma cosa? Andare dalla polizia? Magari dal Vice Questore? E poi a dirgli cosa? Che avevamo sentito il nostro bassista tossico parlare con uno dietro l'angolo?
In ogni caso da quando era venuta fuori questa cosa dell'ipotesi bomba non riuscivamo piu' a stare tranquilli, ne parlavamo in continuazione. E alla fine abbiamo deciso di agire. Un'azione rischiosa e probabilmente inutile, ma in fondo anche l'unica cosa che potevamo fare.
Alle prossime prove uno dei due sarebbe uscito dalla stanza con una scusa e avrebbe perquisito le tasche della moto di Shere in cerca di qualche indizio.
"Cosa vuoi che nasconda in due borse di cuoio che lascia appese alla moto?" obbiettava Marco, "Lo so anche io, ma non mi viene in mente altro. E a te?".
E cosi' il Giovedi' successivo e' toccato a me dire "Devo fare una corsa alla cabina per chiamare i miei, scusatemi. Ci metto due minuti, voi intanto continuate. Arrivo subito!".
Ho sceso le scale di corsa saltando i gradini e mi sono precipitato fuori. La moto era nella solita posizione, sotto un lampione a qualche metro dall'ingresso.
Cercando di dimostrare la naturalezza del proprietario mi sono chinato sulla prima sacca e ho aperto la fibbia.
Se Shere mi avesse scoperto probabilmente mi avrebbe ammazzato.
Niente. Al termine della mia rapida ispezione delle due sacche non ho trovato niente. Niente almeno che potesse apparire sospetto. Un maglione, incredibilmente identico a quello che gia' indossava, un paio di guanti di pelle, un passamontagna sottocasco, qualche numero della rivista "Hard'n'Heavy" e un rotolo di carta igienica.
Quando sono rientrato in stanza ho evitato di incrociare lo sguardo di Marco e mi sono inserito nella jam senza che si interrompessero.
Dopo che Shere se ne era gia' andato Marco mi ha chiesto "E allora?"
"Allora niente, nada de nada" gli ho risposto e la cosa e' finita li'.
Non ne abbiamo piu' parlato. Un po' ci vergognavamo di quel momento da piccoli detective da libro per ragazzi. Probabilmente Shere si era solo trovato nello studio del suo avvocato per discutere con la polizia uno dei tanti impicci che aveva con la legge.
Poi pero' e' arrivata la bomba al tribunale di Venezia.
Diversi chili di tritolo fatti saltare proprio davanti all'ingresso laterale del vecchio tribunale. In piena notte.
Un morto e nessun altro ferito. La vittima era un senza casa che stava dormendo davanti al portone di un palazzo vicino ed era stato investito in pieno dall'esplosione.
Quando ho sentito la notizia ho pensato immediatamente a Shere e quando poi mi sono visto con Marco non ho potuto fare a meno di chiedergli "hai visto cosa e' successo a Venezia? Cosa ne pensi?"
"Boh..." mi ha risposto "cose del genere ne capitano in continuazione, alla fine non abbiamo nessuna prova che Shere possa c'entrare qualcosa. Le nostre sono solo fantasie".
Alle prove comunque Shere ha smesso di venire, proprio a partire da quella settimana. Ce lo aspettavamo dal momento che aveva iniziato. Anzi, sembrava strano che fosse venuto regolarmente a provare con noi per mesi di seguito. Tuttavia la coincidenza tra la sua sparizione e l'attentato a me continuava a suonare strana.
Ci bruciava parecchio. Avevamo messo insieme un buon repertorio con sei pezzi nostri e quattro cover ben fatte. Avevamo anche iniziato a parlare di registrare qualcosa e magari di esibirci dal vivo. Anche se di quest'ultima cosa Shere, pur non esprimendosi direttamente, non sembrava entusiasta.
Digerita la delusione abbiamo continuato a provare io e Marco, ancora indecisi se cercare un altro bassista o aspettare una miracolosa apparizione di Shere. L'entusiasmo intanto era decisamente calato.
Quando una sera, dopo ormai un mese che non lo vedevamo, ha fatto capolino dalla porta.
Abbiamo subito notato che non aveva con se' il basso.
E' entrato con la sua espressione seria e schizzata di sempre, ci ha salutati e ha detto "Sono passato ad avvisarvi che non posso piu' venire a suonare. Spero che non smetterete, i Blue China meritano di proseguire. Potete trovare un altro bassista. Oppure prendervi una Bassline Machine. Che e' sempre meglio di una testa di cazzo".
Conciso e caustico. Non sembrava avesse molta voglia di parlare. Noi neppure. Siamo rimasti in silenzio qualche secondo spiazzati dalla sua apparizione e anche dalla notizia, e lui ne ha approfittato per uscire di scena con un cenno della mano.
Il tutto e' durato una manciata di secondi e ci ha lasciati attoniti. Per un attimo ho pensato che fosse stata un'allucinazione.
"Ecco fatto, siamo a piedi." ha detto Marco. Io ho fatto un cenno con la testa e poi per rompere l'imbarazzo siamo ripartiti a suonare.
Dentro di me sentivo che qualcosa si era rotto.
Non e' passata neanche una settimana che Marco, una sera, ha attaccato un discorsetto che sembrava aver preparato da un po'.
"Non credo che la band abbia un futuro. Tu sei bravo ma io non progredisco. Non mi sento a mio agio. E poi mi sto vedendo con Marzia. Penso che stia diventando una cosa seria. Sai come sono fatto, non riesco a fare due cose nello stesso tempo. Ho bisogno di dedicarmi a noi due. Scusa. Ma tu dovresti continuare."
Mollato dal mio socio. Non ci potevo credere.
Mi era montata dentro un'incazzatura fredda e mi ero congedato con un paio di frasi di circostanza. Era tutto finito. Nel giro di qualche giorno passavo dal eccitazione alla depressione di un presente senza prospettive. Mi ci e' voluto un po' di tempo per accettarlo.
Inutile dire che anche del rapporto di amicizia con Marco non era rimasto molto. Al negozio di dischi al Sabato ci andavo per conto mio. E senza molta voglia di socializzare. Mi sono comperato qualche disco nuovo e ho continuato a suonare da solo, provando e riprovando nella mia cameretta. Con un senso di ripicca.
Fino a quel Lunedi'.
Ero tornato a casa da scuola, troppo tardi perche' i miei genitori mi aspettassero per pranzare. Come succedeva ogni giorno.
Sul tavolo avevo trovato un piatto di pastasciutta coperto e una copia del giornale. Ho iniziato a mangiare e ho preso il giornale per dare un occhiata alla prima pagina. Mi sono ritrovato osservato da Shere che da una fotografia mi puntava il suo sguardo fisso e impenetrabile.
Probabilmente era la foto della patente o della carta di identita'. Riuscivo a intuire che indossava una maglietta dei Venom dalla sommita' della grafica che faceva capolino nella fotografia.
Il titolo recitava "Ucciso il tossicodipendente con il tritolo".
Mi ci sono voluti cinque minuti in cui ho continuato a guardare la fotografia e il titolo cercando di convincermi che non poteva trattarsi di uno scherzo o di un errore. Shere era stato veramente ammazzato. Solo dopo sono riuscito a leggere il resto dell'articolo.
Il testo raccontava di come il giorno prima fosse stato fermato per un controllo nel parcheggio di un ristorante in un paesino della provincia, mentre era in sella alla sua motocicletta. Aveva reagito al fermo estraendo una pistola e puntandola contro gli agenti che, nel racconto dell'articolista, si erano messi al riparo aprendo il fuoco prima che lui potesse sparare o fuggire, uccidendolo sul colpo con tre proiettili.
Nelle sacche della sua moto avevano trovato diversi candelotti di tritolo e una bomba a mano.
Ma quello che lessi subito dopo mi lascio' ancora piu' sotto shock.
A sparare era stato il vice questore della mia citta', che si trovava a capo della pattuglia. In un lampo mi passarono davanti agli occhi le immagini del poliziotto mentre parlava nell'aula magna della mia scuola e poi mentre usciva dal portone dello studio del padre avvocato del mio compagno di classe. Infine mi sembro' di sentire risuonare la sua voce mentre sibilava "Guarda che ti faccio fuori Giovanni...".
Un brivido mi risali' lungo la schiena fino al collo.
Ho chiamato subito Marco e dopo che sua madre me lo ha passato gli ho chiesto "Hai letto il giornale?"
"No, perche'?" mi ha risposto.
"Dagli un'occhiata poi ci risentiamo" e ho chiuso la comunicazione.
Marco non mi ha richiamato. Cosi' il giorno dopo a scuola lo sono andato a cercare e gli ho chiesto a bruciapelo: "Hai visto cosa e' successo a Shere?"
"Si ho visto" mi ha risposto con un espressione distaccata, quasi infastidita, "Del resto era un tossico pazzo, era ovvio che avrebbe fatto una brutta fine".
Sono rimasto spiazzato, mi pareva di parlare con un estraneo, quindi ho tagliato corto e me ne sono andato.
Nei giorni successivi altri amici mi hanno rivolto apprezzamenti simili "Hai visto che fine ha fatto Shere? Ma non suonava con voi? Chissa' che cazzo stava combinando".
Mi davano davvero fastidio e cercavo di evitarli. Nessuno che esprimesse del rammarico, della compassione o un vero interesse; sembrava parlassero del personaggio di un film.
Questo ha contribuito ad allontanarmi da quei giri e ad isolarmi parecchio.
Almeno fino a quando ho cambiato citta' per gli studi. Senza piu' fare ritorno.
Per anni il pensiero di quei fatti mi ha sconvolto e accompagnato.
Ho sempre creduto che prima o poi qualcuno avrebbe fatto chiarezza su una storia tanto misteriosa e brutale, ma non e' mai emerso nulla.
Quando e' arrivato Google ho inserito il vero nome di Shere tra gli "alert" sperando che prima o poi mi arrivasse qualche notizia.
Sono passati ancora diversi anni fino a che l'altro giorno Google la segnalazione me l'ha mandata davvero. Si trattava della pubblicazione di un avviso ufficiale sul sito del comune di residenza di Shere, dove si comunica l'esumazione dei suoi resti, insieme a tutte le tombe sottoposte a scadenza nel cimitero del paese.
Ho guidato diverse ore per essere presente a quel momento che ho osservato dal lato opposto del piccolo campo santo, alla presenza di alcuni anziani e degli operai comunali, sotto una pioggia sottile in un grigio pomeriggio.
Al termine di quel rito personale sono andato in citta', e ora sono al vecchio bar dove ci siamo conosciuti.
Anche il bar e' molto cambiato. E' un tripudio di spatolato veneziano tinta salmone e cromature dorate, gestito da una coppia di simpatici cinesi. Non c'e' piu' ovviamente traccia dei ragazzi con i dischi sotto il braccio e anche il negozio a fianco non c'e' piu'. Anzi, c'e' ancora, ma e' diventato un Compro Oro.
Solo i pensionati sono rimasti, e ancora giocano a carte, anche se probabilmente non sono piu' gli stessi. E questo pensiero mi regala il primo sorriso della giornata.
Per la prima volta sul mio blog un pezzo non autobiografico. Il racconto che avete letto e' da ritenersi frutto di fantasia, ogni riferimento a persone, luoghi, avvenimenti o negozi di dischi realmente esistiti e' puramente casuale.
Tuttavia la mia fantasia e' stata suggestionata anche da alcuni titoli di giornale della mia giovinezza. Vissuta in una provincia che si suole ritenere tranquilla, a quel tempo.
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Fonte: Blue China (di La Frontiera)
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