Per anni il Giappone e' stato un modello di trasformazione tecno-futuristica della realta', necessaria fonte di ispirazione per gli scrittori di fantascienza occidentali - una fascinazione resa ancora piu' forte dalla dialettica con una tradizione ricca di elementi misteriosi e "barbarici". In effetti, non e' servita una conoscenza approfondita del Giappone a William Gibson per scegliere Chiba come ambientazione nel Neuromante: quella degli scrittori cyberpunk fu una fascinazione per certi versi superficiale, tanto erano ammaliati da una cultura di cui non conoscevano nemmeno un kanji. Ma come ha fatto il paese del Sol Levante a passare da paese dei samurai a robotopia in meno di un secolo? Io, da traduttore e studioso di manga, non posso che rispondere alla domanda in questo modo. Seguitemi.

Possiamo pensare al rapporto Giappone con la tecnologia occidentale in tre "traumi":

Epoca Meiji (1868 - 1912): per sopravvivere e non essere colonizzati dagli stati occidentali bisogna acquisire le tecnologie "aliene" per sopravvivere; la "rivoluzione" sociale viene imposta dall'alto: alcuni slogan del tempo sono "Fukoku Kyohei" ("arricchire la nazione e rinforzare l'esercito") e "Bunmei Kaika": "civilta' e illuminismo".

Seconda guerra mondiale: la scienza occidentale si e' espressa al suo massimo con la bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki, vera apocalisse sulla Terra.

Dopoguerra: la tecnologia e la societa' dei consumi forgiano - spoiler: come un innesto cyborg - l'identita' nazionale di oggi, tra alta tecnologia e tradizione.

In realta', gia' prima del secondo conflitto mondiale, la filosofia di Nishida Kitaro - uno dei filosofi giapponesi piu' importanti, fondatore della Scuola di Kyoto, quella dei filosofi del nulla - aveva cercato di trovare un possibile compromesso tra cultura giapponese e tecnologia occidentale: al posto di rifiutare la scienza "straniera" e rivalutare la cultura tradizionale dell'Arcipelago, Nishida cerco' di stabilire una sintesi tra Oriente e Occidente, e nel suo Nihon bunka no mondai ("Il problema della cultura giapponese") creo' una logica complicata che serviva a provare il fatto che il Giappone poteva diventare il mondo e che si potesse dissolvere l'opposizione Est-Ovest in un'unicita' universale senza perdere le proprie particolarita' - una condizione ideale che il filosofo di Kyoto chiama Mondo Storico. L'impostazione di Nishida anticipo' riflessioni divenute urgenti nel mondo globalizzato e ipertecnologizzato, nonche' problematiche che nel corso del Novecento non si sono sapute risolvere, ma che sopravvivono nelle narrazioni - specie se disegnate.


Viaggi su Marte e robot

In effetti, mentre i filosofi di Kyoto si domandano come "lo spirito giapponese" possa sopravvivere al mondo moderno, il fumetto - che ricordiamo essere in Giappone vivo specchio della societa', e non mera amenita' per marmocchi - gia' esprime fantasie, speranze e dubbi sul nuovo mondo introdotto dalla scienza. Secondo i manuali di storia del manga, un esempio importante in tal senso e' Kasei tanken ("Viaggio su Marte") di Asahi Taro, pubblicato nel 1940. Se le avventure di un ragazzo accompagnato da animali domestici parlanti sono graficamente vicine all'avventura fantastica e al sogno alla Little Nemo, Kasei tanken preannuncia ben tre generi che fioriranno in seguito: la fantascienza tout court, l'avventura scientifica (kagaku boken, dove un giovane studioso mette tutte le sue conoscenze e il suo coraggio al servizio del bene e della nazione), e tutto quel filone con al centro le avventure di un ragazzo accompagnato da un essere non umano, e il cui esempio piu' rappresentativo e conosciuto e' probabilmente Doraemon (1969).

Ancora: nel 1943, e quindi in piena guerra, Yokoyama Ryuichi crea Kagaku senshi, un "guerriero scientifico" che si trovera' in breve tempo a devastare New York. Questa "primitiva chincaglieria" (come la definisce lo storico del manga Jean-Marie Bouissou, confondendo l'autore con Tagawa Suiho, il papa' di Norakuro), e' l'antenato dei robottoni da guerra che, da Goldrake in avanti, invaderanno - non senza una certa logica imperialista - i nostri schermi televisivi. Altri vedono in Tank Tankuro di Sakamoto Gajo del 1934 il primo robottone: ma e' difficile definire in tal senso questo guerriero imperialista protagonista di un manga non scevro di elementi di propaganda. In ogni caso, il Kagaku senshi di Yokoyama e' solo il primo di una lunga fila: a sottolineare la robofilia nipponica, da li' arriveranno Tetsujin 28-go di Yokoyama Mitsuteru e soprattutto Tetsuwan Atom, l'Astro Boy di Tezuka Osamu.

Considerando velocemente certi aspetti dello Shintoismo, si puo' generalizzare un poco e asserire che per molti giapponesi "ogni cosa e' sacra e ha uno spirito". In effetti, per una popolazione che ha scoperto kami (divinita') in ogni dove, e' naturale che il robot sia visto come qualcosa di vivo, oltre che simbiotico in una societa' votata a rendersi sempre piu' robotica.

Non stupisce allora che il primo eroe di carta a imporsi nel dopoguerra sia stato proprio Astro Boy di Tezuka: un robot ma dalle forme non minacciose, simile ai tanti bambini che giravano per le strade. Apparso per la prima volta nel 1951, Astro Boy e' divenuta una delle serie manga (e anime) piu' celebri di sempre: fa parte del patrimonio culturale giapponese alla pari delle opere di Mishima e Kawabata, o dei film di Kurosawa e Ozu. Il fatto che Astro Boy fosse un automa (a differenza di Tetsujin 28-go, dove il robot era telecomandato) e' stato parte del successo.

Se mi sono dilungato su queste nozioni storiche, e' anche perche' queste letture "robotiche" sono state la culla di tutti gli autori cyberpunk e fantascientifici a venire. In un'intervista, Masamune Shiro (Ghost in the Shell) ha rimarcato quanto la sua infanzia - e quella dei giapponesi in generale - sia stata educata proprio dalla "fanta-robotica": i robot erano amici, attrezzi un po' umani un po' no che hanno ricostruito una nazione distrutta dalla bomba atomica. Nel dopoguerra, la tecnologia e' stata per i giapponesi la chiave per non essere colonizzati dalle potenze occidentali - la chiave, dopo la sconfitta, per dominare un mondo.

Nei primi anni Settanta, Nagai Go consolida il genere dei mecha con Mazinga Z, a cui seguiranno Great Mazinger (1974-75) e UFO Robo Grendizer (1975-76); questi robot in un certo senso risolvono l'antico problema della personificazione della macchina (esempio tipico: il gigantesco robot pilotato da una piccola macchina volante), ma causano anche controversie: fino a questo momento, la maggior parte della critica giapponese ancora sente come il genere fantascientifico sia qualcosa di imposto da fuori, e che la letteratura nazionale non sia che una imitazione un po' vuota di elementi altrui (fanno eccezione scrittori come Abe Kobo che, nonostante l'orientamento fantascientifico, coi suoi romanzi e' riuscito a trovare posto anche nella letteratura non di genere o "ufficiale"). A partire dal dopoguerra, il manga fantascientifico si e' dopotutto evoluto inglobando le varie correnti sci-fi straniere sincronicamente piu' che diacronicamente, ricevendo influenze simultanee senza seguire un ordine preciso; ecco perche' possono convivere nello stesso universo letterario sia la fantascienza hardcore che quella speculativa o il fantasy, spazio profondo e spazio interiore.

Solo con la serie animata Gundam (1979) di Tomino Yoshiyuki il genere mecha riesce a uscire da questo pantano, realizzando il passaggio che dal super robot porta al real robot. Se nel primo il tipico elemento speculativo della sci-fi e' praticamente assente (si tratta fondamentalmente di storie in cui arriva il Mazinga di turno a salvare la situazione), nel secondo l'elemento robotico viene considerato un'arma militare e trattato come tale, non senza suscitare un certo feticismo militaresco. Da li', discendono gli elementi di analisi socio-politica-etica che, specie agli occhi occidentali, rendono pienamente Gundam un'opera di vera fantascienza.


Innesti

Mentre, attorno alla meta' degli anni Ottanta, Otomo Katsuhiro disegnava un'opera pionieristica del cyberpunk come Akira, non immaginava che dall'altra parte dell'emisfero la fantascienza americana e anglosassone stesse prendendo come riferimento proprio la sua nazione - in giapponese, Neuromante non era ancora stato tradotto. Quando pero' il cyberpunk esplodera', i nuovi automi saranno pronti a sviluppare reti neuronali tra i server, come in Ghost in the Shell di Shirow Masamune (a tal proposito: rispetto al lungometraggio animato che lo ha reso celebre, dove molti elementi cyberpunk sono in qualche modo "accessori estetici", i tre tankoobon che raccolgono il manga sono assai piu' densi di cibernetica applicata, e le implicazioni etiche della tecnologia sono ampiamente accelerate e approfondite in lunghe note dall'autore); altri faranno invece fatica a liberarsi delle parti organiche, come in Alita di Kishiro Yukito.

Non ho citato questi due titoli a caso: nella produzione di manga propriamente detta cyberpunk di fine anni Ottanta e inizio Novanta, a emergere - a differenza dei corrispettivi occidentali maschi etero - e' la figura del cyborg femminile. Ma se e' vero che queste protagoniste sfidano, con il loro corpo organico-meccanico, le categorie etniche e di genere, non dobbiamo pero' farci trasportare troppo in la' dal Cyborg Manifesto di Donna Haraway. Di nuovo, sarebbe piu' corretto leggere la presenza di eroine cyborg come sintomo dell'identita' lacerata giapponese, divisa tra spirito nazionale e tecnologia "aliena".

Aspetto comune della grande tradizione narrativa sulla "trasformazione dei corpi", che va da Kachikujin yapu (Yapoo il bestiame umano di Numa Shozo del 1953) a Tetsuo di Tsukamoto Shin'ya (1988), e' l'accettazione forzata e violenta di implementazioni meccaniche e cibernetiche, che implicano la mutazione come condizione necessaria alla sopravvivenza. Inoltre, non bisogna dimenticare che il cyberpunk giapponese ha reso implicita la vecchia logica dell'unicita' - e superiorita' estetica e morale - del Giappone: sia Ghost in the Shell che Alita sono un sintomo dello struggimento delle dualita' io/altro, organico/inorganico, Giappone/Occidente. Probabilmente e' un caso, ma come fa notare Bouissou, "Alita, eroina senza memoria alla ricerca della propria identita', riproduce inconsciamente il percorso che fu del Giappone sulla scena mondiale tra l'era Meiji e la fine del XX secolo. E' in successione 'aggressore dei propri vicini' (cacciatrice di taglie), 'vincitrice di una competizione economica' (campionessa sportiva) e 'alleata degli Stati Uniti' (mercenaria per Salem) prima di scoprire che un tempo fu Yoko (giapponese, dunque), guerriera sconfitta e decapitata".


Otaku superflat

In A Theory of Super Flat Japanese Art, Murakami Takashi riprendeva l'idea di Tsuji Nobuo secondo la quale le convenzioni pittoriche tradizionali dell'antico Giappone - spazio piano, poca profondita' negli spazi e nei volti - erano piu' forti che mai nell'arte popolare rappresentata da manga, anime, videogiochi, ecc. Al tempo stesso, secondo Murakami, il futuro del mondo era il presente (gli anni Novanta) del Giappone.

Molti critici si trovano d'accordo nell'indicare una certa scarsezza di profondita' nella struttura teorica di Neon Genesis Evangelion, l'anime del 1995 ultima evoluzione del mecha. In effetti l'idea di una serie fantascientifica che si conclude con un nuovo Adamo ed Eva e' trita e ritrita nel panorama occidentale; la debolezza della struttura narrativa viene pero' perdonata da pubblico e critica grazie alla profonda caratterizzazione dei personaggi, alle scelte registiche, e a un mecha design avanguardistico ancora per gli standard di oggi. Insomma, per scelte di significante - di superficie. Va anche notato come il manga di Evangelion arrivi dopo la serie animata: da tempo ormai la carta non e' piu' il terreno esclusivo da dove vengono tratte le storie da animare, anche nei piccoli studi di animazione indipendenti; il terreno fertile e' quello del merchandise, canale diretto con l'universo otaku (a cui infatti si rivolge lo stesso Evangelion).

L'evasione otaku dalla realta' contiene due aspetti contrapposti: da un lato esprime eversione e ribellione da una realta' ultra-tecno-liberista e da una severissima morale sociale; dall'altro, e' un misero palliativo che cementifica la realta'-prigione. In questo contesto va inserita l'erotizzazione di molta sci-fi, da leggere sia come ribaltamento della normativita' che come catarsi. Libera dal dogmatismo del materialismo dialettico, la proliferazione otaku che vede il COMIKET come manifestazione principale erotizza l'inimmaginabile: il manga apocalittico e fantascientifico ne viene investito - pensiamo a Urotsukidoji: Legend of the Overfiend di Maeda Toshio; Masamune Shiro si e' dato agli hentai cyberpunk.


Verso il Vuoto

Come sottolinea Matteo Gaspari, Tsutomu Nihei in Blame! echeggia molte strade della filosofia contemporanea, dagli iperoggetti di Timothy Morton agli incubi tecnologici di Nick Bostrom. Nel manga di Nihei (iniziato a fine anni Novanta), il cyberpunk e' superato dal nichilismo post digitale. Internet - la rete - non e' che una AI impazzita. Le tribu' che popolano le megastrutture - singolarita' tecnologica - hanno dimenticato la loro cultura, hanno smarrito le conoscenze e i rituali che rendono "umano" l'essere umano. La ricerca disperata di esseri con ancora in possesso i "geni terminali" (ovvero la capacita' di collegarsi alla rete) da parte del protagonista (forse cyborg, in ogni caso transumano come gli esseri di silicio) e' la ricerca dell'umanita', e non del simulacro di essa. Se la storia e' la storia delle parole, come dicevano Burroughs e Gysin, allora l'ambientazione di Blame! e' antistorica: gli esseri che abitano in questi incubi industriali hanno smesso di leggere e comunicare.

In quest'opera volutamente ermetica e anti-narrativa, Nihei riesce a condensare e a descrivere a fumetto con veggenza poetica le minacce di un futuro sempre piu' prossimo.

Come Watchmen ha segnato la fine (o una fine) del fumetto supereroistico, Nihei segna la fine della fantascienza giapponese per come la conosciamo (almeno con Blame!, e cioe' prima di fare qualche passo indietro con Knights of Sidonia, opera squisitamente mecha). Non si puo' non notare un certo "vuoto" al sapore di neon delle narrazioni cyberpunk contemporanee, come non lo si puo' non notare nella erotizzazione alienante del mondo otaku: se non rimane niente di umano, almeno che resista una ontologia negativa nel Mondo Storico ormai destoricizzato.

Se questo percorso "altro" (e necessariamente non esaustivo) ha portato a un Nulla come conclusione del rapporto conflittuale nato dall'ibridazione civilta'/tecnologia (e il Giappone storicamente si e' prestato come forte concentrazione di contraddizione) probabilmente e' perche' non si e' ancora sciolto il nodo tra "pieno" del raziocinio occidentale al "vuoto" del pensiero orientale. In ogni caso, si e' realizzata in parte la visione di Dick de La svastica sul sole: il Giappone ha dominato il dopoguerra e conquistato il mondo, non con l'esercito ma coi robottoni di carta. Cosa succedera' quando waifu cibernetiche e hologram idol entreranno a far parte delle nostre esistenze quotidiane?
Juan Scassa

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Fonte: Dalla Robotopia Al Cyberpunk (di Not)
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